Il Personaggio del mese

L’intervista a Roberto Grandi, Professore di Comunicazioni di Massa e di Comunicazione Pubblica

“Ricordiamo Eco con la Grande Festa delle Lettere”

Di Paola Frontera

Più di quarant’anni fa Roberto Grandi è stato fra i protagonisti della nascita del Dams e poi di Scienze della Comunicazione: un’avventura che ha condiviso con Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio scorso all’età di 84 anni. Oggi Grandi insegna Comunicazioni di Massa e Comunicazione Pubblica all’Alma Mater. E’ stato assessore alla Cultura dal ’96 al ’99, anni molto intensi visto il ruolo di Bologna Capitale europea della Cultura nel 2000. Accademico, dunque, ma con un’esperienza all’interno dell’amministrazione, e uno sguardo reso ancora più ampio dai nove anni, dal 2000 al 2009, durante i quali è stato Pro Rettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Bologna.

Professor Grandi, negli anni ‘70 nasce il Dams a Bologna, all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia: Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo. La prima esperienza in Italia. Lei è stato tra i primi docenti, così come Eco. Quali furono i cambiamenti che segnarono un passo completamente nuovo per la nostra Università?
“Il Dams nasce da un’idea del grecista Benedetto Marzullo che voleva introdurre negli studi universitari anche l’aspetto pratico, oltre a quello teorico. Dunque chiamò docenti che, oltre a portare avanti un’attività di studio e ricerca, fossero anche in grado di analizzare dall’interno le materie che insegnavano. Tra questi, per esempio, anche Furio Colombo e Umberto Eco, reduci entrambi da esperienze in Rai. Fu questo il primo aspetto dirompente. Il secondo è stato quello di introdurre negli studi universitari dei contenuti storicamente esclusi dalla ricerca accademica perché riferiti alla cosiddetta cultura bassa, come il fumetto o la letteratura considerata di serie B. Applicare l’analisi scientifica a opere di bassa cultura ruppe la distinzione tra cultura alta e bassa. La terza novità a mio parere ha riguardato proprio il modo in cui Eco insegnava: portava in aula i transistor, i magazine, le fotografie, e analizzava tutto il materiale vivo. Una rivoluzione rispetto a coloro che avevano una visione più baronale dell’Università”.

Poi nacque un’altra eccellenza dell’Alma Mater: la facoltà di Scienze della Comunicazione.
“Sì. All’interno del Dams convivevano due indirizzi: quello progettuale, con Maldonado e Anceschi, e quello attinente alla comunicazione, con Eco. Purtroppo l’indirizzo progettuale emigrò al Politecnico di Milano che ne ha tratto un enorme vantaggio. Qui nacque invece Scienze della Comunicazione, una facoltà nuova, della durata di cinque anni, che divenne subito uno dei posti più ambiti in Italia. Per 120 posti ricevevamo tremila domande. Un grande successo”.

Che tipo di professore era Umberto Eco, già famoso anche tra i non accademici per l’enorme successo del suo primo romanzo Il nome della rosa, uscito nel 1980?
“Era un professore, punto. Un professore convinto che il proprio lavoro fosse molto importante e quindi da svolgere con grande professionalità e passione. Anche nel suo ruolo di docente ruppe gli schemi. La fine di ogni lezione era l’inizio di un altro dibattito, che dalle aule della facoltà proseguiva in pizzeria, di solito in via Santo Stefano, dove lo seguiva sempre un gruppetto di 15-20 studenti di Semiotica, per continuare a scambiarsi opinioni. Contrariamente ad altri docenti, Umberto Eco sentiva molto gli obblighi del suo impegno da professore ed era sempre presente. Se penso che nonostante i suoi innumerevoli impegni è riuscito a trovare il tempo per far uscire il volume Come scrivere una tesi di laurea, mi dico che sì, era proprio così, era un vero professore che pensava ai suoi studenti”.

Cosa significava per il nostro Ateneo avere Eco tra i suoi docenti? E per lui che significato aveva la città di Bologna?
“Senza dubbio per l’Università di Bologna annoverare Eco tra i suoi docenti è stato un grande vantaggio. Ogni volta che si andava all’estero, in qualsiasi università del mondo, chiedevano se potevamo fare da tramite per invitare Eco. Durante i nove anni nei quali ho ricoperto per l’Università la delega alle Relazioni Internazionali, mi sono reso conto ancora di più della sua fama sconfinata, se ce ne fosse stato bisogno. Sia a livello accademico sia, dopo Il nome della rosa, fuori dal mondo universitario. Nonostante avesse offerte di insegnamento da tutte le parti del mondo, lui rimaneva qui: due giorni e mezzo alla settimana per quarant’anni li ha passati a Bologna. Diceva: è la città che mi permette di fare quello che faccio. Bologna per lui era insegnare, mangiare, e dalle dieci di sera all’alba, scrivere. Bologna era il suo campus, aveva la giusta dimensione che gli ha permesso di lavorare, perché per i bolognesi era normale incontrarlo per strada, e nessuno ci faceva ormai caso. Bologna è abituata a convivere con grandi personaggi e non se ne meraviglia, è fatta così. Rimanere qui ha significato preservarsi dal vivere come uomo di successo”.

Per Bologna Capitale Europea della Cultura nel 2000, Eco aveva proposto il progetto del Portico telematico in Sala Borsa, ma non se ne fece nulla.
“Umberto era molto generoso. Aveva accettato, con Enzo Biagi e Luca Cordero di Montezemolo, di far parte del gruppo di saggi chiamati a indirizzare le energie di Bologna 2000, e in particolare a sviluppare il tema della comunicazione. Quando però la nuova amministrazione della città non volle portare avanti il suo progetto del Portico telematico in Sala Borsa non fece mai polemica. Era un tentativo di ragionare sui media digitali, di far diventare la città un punto di riferimento sul tema della comunicazione. Mi disse solo: peccato, non ci vogliono. Il fatto che Umberto non ci sia più manca e mancherà perché la sua generosità era davvero grande”.

Oggi, dopo la scomparsa di Eco, c’è qualcosa che potrebbero fare l’Università e la città di Bologna per ricordarlo?
“Sì: proseguire un progetto nel quale Eco era molto coinvolto e del quale presiedeva il Comitato Scientifico, incarico che rimarrà ricoperto da lui. Si tratta della Grande Festa delle Lettere del 2018, ovvero le celebrazioni dei 500 anni della morte di Francesco Griffo da Bologna, straordinario innovatore del Rinascimento, inventore del carattere tipografico corsivo e quindi colui che ha contribuito in maniera decisiva alla democratizzazione della lettura attraverso la creazione del libro economico. Prima di Griffo i libri a stampa erano ancora grandi e costavano molto. L’invenzione del corsivo ha cambiato la storia e ha aperto le porte all’editoria moderna. Anche oggi uno dei caratteri più utilizzati al computer, il garamond, è preso pari pari da Griffo. A dimostrazione che dopo 500 anni l’invenzione di Griffo è rimasta intatta, come il cucchiaino. Eco era entusiasta di questo progetto, basti pensare che i personaggi dei suoi libri hanno una cosa in comune: portano tutti nomi di caratteri a stampa. A questo punto noi porteremo avanti questo progetto e spero che il Comune e l’Università, a cui lo abbiamo proposto, accettino di formare un comitato per capire cosa ciascuno di noi può fare: sarà un modo per rendere omaggio anche a Umberto”.

Più di quarant’anni fa Roberto Grandi è stato fra i protagonisti della nascita del Dams e poi di Scienze della Comunicazione: un’avventura che ha condiviso con Umberto Eco.

“Al Dams Eco portava in aula i transistor, i magazine, le fotografie, e analizzava tutto il materiale vivo. Una rivoluzione rispetto a coloro che avevano una visione più baronale dell’Università”.

“La fine di ogni lezione di Eco era l’inizio di un altro dibattito, che dalle aule della facoltà proseguiva in pizzeria, di solito in via Santo Stefano, dove lo seguiva sempre un gruppetto di 15-20 studenti di Semiotica”.